Cultura e socialità danno senso alla vita?

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Cultura…
Per anni è risuonata la domanda: ma ci si mangia?
Ora si fanno strada gli interrogativi: ma serve a qualcosa? Fa bene alla salute?

Socialità…
Per anni ha avuto due interpretazioni superficiali: frivola mondanità o lavoro assistenziale.
Ora viene vista unicamente come veicolo di contagio.

La nostra convinzione è un’altra: un rinnovato impegno nel promuovere processi sociali e culturali può essere la cura di cui abbiamo bisogno.
La cura dell’epidemia afferisce ovviamente all’ambito medico. Il prendersi cura delle esistenze dei singoli e delle comunità, invece, deve coinvolgere tutti i cittadini e, secondo noi, dovrebbe avere una dimensione socioculturale.
Semplificando un po’, intendiamo per sociale tutto ciò che riguarda le relazioni tra le persone e per culturale ogni sforzo di dare senso alle proprie azioni e alla vita in genere. Socioculturale significa, quindi, cercare un senso insieme agli altri, riconoscersi e confrontarsi per migliorare il proprio contesto, maturare sogni comuni e costruire collettivamente le condizioni per realizzarli.

 

Riepilogo delle “puntate precedenti”

Da anni cerchiamo di ragionare sulla funzione socioculturale delle biblioteche e di altri servizi. Continuiamo a farlo anche rispetto all’oggi e al domani:
ci siamo domandati se ci sarà ancora bisogno di incubatori di comunità;
abbiamo messo a fuoco la loro potenziale utilità per affrontare l’infodemia;
abbiamo rammentato come il pericolo di risultare irrilevanti derivi anche da un’abitudine alle “emergenze” e da alcune dismissioni di pensiero.
Proviamo a considerare qualche altro elemento del passato recente e del futuro prossimo.

 

Sentirsi sacrificabili

Le prime chiusure anti-contagio sono state rivolte alla cultura “sociale”, cioè gli ambiti culturali che prevedono spazi di incontro: per teatri e sale concerto era arduo attrezzarsi rapidamente per evitare assembramenti, ma forse musei e biblioteche sarebbero potuti restare aperti con appropriate misure di sicurezza. In un secondo momento sono stati interdetti gli spazi della socialità “gratuita” (come i centri di aggregazione), poi gli spazi della socialità “a pagamento” (ristoranti, bar, ecc.), infine alcuni comparti produttivi.
Non polemizziamo sulle scelte fatte – di fretta e in una situazione inedita –, ma ci interroghiamo per capire quali interessi e priorità considerare nella società di domani.
Rinunciare alla dimensione sociale e culturale di una comunità ha effetti importanti, che si possono temporaneamente assumere come “male minore”, ma che vanno considerati con attenzione e consapevolezza.

 

Si può fare a meno di sociale e culturale?

Lo psicosociologo Ennio Ripamonti riflette:

Le relazioni interpersonali sono ossigeno e la loro rarefazione finisce per produrre sofferenza. Non solo, l’esperienza sociale della malattia porta con sé, quasi inevitabilmente, la sperimentazione di una situazione di «caos», in prima battuta sul piano logistico e organizzativo (scadenze, incombenze, impegni, compiti, attività, obiettivi, priorità) ma poi, a lungo andare, ad un livello più profondo, ad un contempo psichico e filosofico, esponendo ognuno di noi ad una vera e propria “effusione di senso al di fuori delle categorie dello spazio e del tempo”.

La mancanza di una socialità articolata su vari livelli (e non limitata ai rapporti intrafamiliari e alla comunicazione online), il non potersi fisicamente incontrare, a lungo andare, porta le persone e le comunità a perdere il senso.

E per la cultura non è sufficiente una fruizione individuale? No, perché un aspetto vitale della cultura risiede nella sua produzione e circolazione.
Sul blog Giap l’editore Pietro De Vivo scrive:

quale è stato il criterio adottato nella scelta dei beni considerati di prima necessità? In molti si sono chiesti come mai i negozi di informatica e telecomunicazioni e le profumerie fossero stati inclusi e le librerie no. Non è il caso di buttare la croce addosso alle profumerie: la cura e l’igiene del corpo sono sacrosante, anche in tempi di distanziamento sociale, tanto quanto la cura e l’igiene della mente. La produzione e la circolazione di cultura e sapere critico sono fondamentali soprattutto in momenti come questo, momenti di crisi in cui non esistono ricette pronte e si prendono misure emergenziali che potranno modificare per sempre le nostre vite.

Come detto sopra, cultura vuol dire proprio potersi interrogare sul senso di ciò che avviene, e farlo insieme ad altri permette analisi complesse e risposte condivise.
Per nostro focus, inoltre, è interessante notare che, nella discussione sotto l’articolo di Pietro De Vivo, lo scrittore Wu Ming 2 commenta:

Purtroppo niente può sostituire una biblioteca aperta al pubblico, specie se ha una di quelle sezioni per bambini e ragazzi dove ci si può sedere, giocare, leggere, sfogliare, rotolare in libertà.

Solo un esempio dei tanti in cui cultura e socialità sono indissolubilmente legate e permettono a una comunità di vivere, e di vivere meglio, non solo di sopravvivere.

 

L’invito ad attivare processi dal basso

L’universo del libro rischia di essere travolto o perlomeno sconvolto dalla situazione presente e bisognerà che tutti i mondi che ne fanno parte collaborino per rilanciare la cultura, come in un complesso ecosistema.
Esorta a farlo anche lo scrittore (e direttore delle ultime edizioni del Salone del libro di Torino) Nicola Lagioia:

dovrebbero essere insomma gli addetti ai lavori a farsi avanti, e dovrebbero farlo dando un segnale di unità mai visto prima. Editori, librai, distributori, bibliotecari – cui vanno riconosciuti moltissimi meriti per come hanno resistito in queste ultime stagioni – dovrebbero superare silenzi, diffidenze e ostilità reciproche […], ammettere che in un periodo di crisi gli obiettivi che li uniscono sono più di quelli che li dividono, trovare pochi ma fondamentali punti cari a tutti e battere su quelli.

Vorremmo estendere questo invito anche ai mondi che non fanno parte della filiera del libro, ma che si occupano della cultura viva sui territori, quei contesti socioculturali, quegli incubatori di comunità, che cercano di tenere sempre unite la dimensione sociale e la dimensione culturale.
Non si dovrà ripartire dalla competizione, ma sarà cruciale ripartire dalla solidarietà, a tutti i livelli. Ci vorrà – sia per i singoli sia per le comunità – cura del lato emotivo e al contempo del pensiero, per comprendere più a fondo gli avvenimenti e avvicinarsi ai sentimenti e alle vicissitudini altrui.

Rispetto alla difficile visione del futuro, Bertram Niessen, direttore della piattaforma cheFare, commenta:

Viviamo un momento che non riusciamo a comprendere fino in fondo. Non riusciamo a capire come ci sentiamo noi e neanche – dietro alle mascherine e agli schermi – come si sentono gli altri. È da qui – prima che da tutto il resto – che viene la nostra incapacità di immaginare quello che ci aspetta “dopo”. […] Per avere cura della nostra vita abbiamo bisogno di una nuova cura della comunicazione. Un esercizio che ci aiuti a selezionare, permutare e sottrarre. Che interroghi radicalmente le forme dell’esperienza su cosa vale davvero la pena produrre, condividere e consumare.

Interrogarsi radicalmente è proprio ciò che ci spetta oggi: guardare alla strada fatta nel passato, ai sentieri percorsi, considerare i vincoli del presente e decidere – insieme agli altri – che cosa maggiormente dà senso e valore alla vita.
Si tratta di una riflessione complessa, che apre all’inedito, che richiede la «digestione di buone dosi di ansia e imprevedibilità» (che indicavamo come necessaria negli incubatori di comunità), che sembra ben riflettersi nelle parole con cui quasi quarant’anni fa Giorgio Gaber concludeva l’album (e spettacolo teatrale) Anni affollati:

Come conclusione, mi sarebbe piaciuto un bel discorso sul futuro. Solo che sul futuro, c’è ben poco da dire. So solo che un tempo, non so se vi ricordate, si cercava di creare delle prefigurazioni di cose, di immagini a cui tendere. Sì, quasi dei punti d’arrivo. Erano come delle bellissime fotografie di una bellissima società che noi avremmo dovuto… Sì, poi queste immagini invecchiavano, si irrancidivano, ma noi continuavamo ad essere affezionati a queste meravigliose fotografie ingiallite, nella speranza magari che con una rispolveratina… No, ora finalmente io non ho futuro, ora io preferisco pensare che ciò che mi spinge fuori sia solo una conseguenza o, meglio, una forza che è alle mie spalle.
Davanti c’è soltanto uno spazio vuoto. L’importante è guardarlo attentamente, questo spazio vuoto, come se da un momento all’altro le cose potessero uscire dal silenzio e rivelarsi.

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