DALLA FASE 1 ALLA FASE INSIEME: coordinate per immaginare il futuro
Siamo giunti nella fase in cui provare a ripensare ad un nuovo mondo, ad una realtà che non sarà più quella che conoscevamo prima. Ci troviamo così, dopo un paio di mesi in cui essenzialmente ci siamo (più o meno) fermati tutti, a riprogettare il modo di rimetterci in movimento.
Giusto il tempo per abituarsi ad una condizione tanto complessa e già siamo chiamati a rimettere tutto in discussione. Siamo invitati a ricercare nuove forme di adattamento, sulla base di poche certezze, pochi esempi ed esperienze dalle quali prendere spunto, affidandoci alla nostra capacità di immaginare ed essere creativi. Non è un lavoro semplice, lo sappiamo, perché immaginazione e creatività non amano l’urgenza e la fretta, anzi si manifestano spesso con tempi e condizioni ben diversi.
A ben guardare però abbiamo incamerato tanti dati in questi mesi attraverso una maggiore dose di informazione, formazione e pensiero. Facciamo così riferimento a questa inaspettata riserva di conoscenza per rimetterla in connessione con le riflessioni sul mondo pre-coronavirus e provare a tracciare, se non una rotta, alcune coordinate per provare a disegnare insieme il futuro. Più che scenari, circolati in abbondanza in queste settimane, proponiamo 5 modi per costruire azioni strada facendo di qui in avanti.
1) Il distanziamento sociale è diverso dal distanziamento fisico
Si è parlato molto di distanziamento sociale, quel processo che comprende tutto l’armamentario della prevenzione del contagio: il metro di sicurezza, le mascherine, l’abolizione di baci, abbracci e strette di mano, l’impossibilità di vederci in presenza in molteplici attività.
Probabilmente sarebbe più corretto intendere tutto ciò come distanziamento fisico, l’impossibilità di connetterci con gli altri con il corpo, lo sguardo, la fisicità. È una parte fondamentale, alla quale non possiamo certo rinunciare. Ci dimentichiamo però che la socialità è fatta anche da altri gesti da non sottovalutare nel loro impatto: tutte le formule che sono state sperimentate in questi mesi, utilizzando tecnologie vecchie e nuove, hanno permesso non solo di continuare a lavorare da casa, ma di mantenere, e in qualche caso costruire, relazioni tra le persone. Hanno permesso di essere distanziati fisicamente ma non socialmente.
Pensiamo alle connessioni che durante la vita abbiamo tenuto con amici e “congiunti” lontani attraverso telefono, videochiamate, e-mail: sono state forse meno reali e importanti? Quei gesti di connessione telematica erano un puro atto simbolico o anch’esse uno strumento di manutenzione di quelle relazioni?
La sensazione è che, presi nel vortice delle limitazioni di movimento, abbiamo relegato nella serie B del mondo relazionale tutto ciò che in questi ultimi mesi abbiamo trasformato in via telematica. Lo abbiamo considerato un palliativo, una toppa parziale ad un buco e una mancanza indubitabilmente enormi. Non stiamo tessendo le lodi della tecnologia o di un mondo senza socialità fisica. Semplicemente crediamo sia importante ricordare cosa è accaduto in tutti questi scambi a distanza fisica ma decisamente non distanza emotiva: la capacità umana di animali sociali è rimasta viva utilizzando altre forme che è stato molto importante attivare.
Per questo è opportuno, accanto al recupero per quanto sarà possibile della vicinanza fisica, dare valore a quella vicinanza sociale che può essere costruita anche a distanza, che può avvenire in tanti modi e che può avere un effetto potente. Non liquidiamola sola come un pezza messa di corsa durante questa emergenza. Dentro queste nuove modalità relazionali sono circolate tante emozioni, si sono generate fiducia, curiosità, si sono gettate basi per connettersi davvero in modi che mai avremmo immaginato, a volte stupendoci della possibilità di bucare e andare oltre quello schermo, a volte scoprendo che quegli stessi maledetti schermi univano più che dividere, per alcuni creavano dei ponti altrimenti impensabili.
In questo processo di nostalgia della presenza fisica siamo condizionati da un’opinione spesso estremamente negativa della tecnologia, intesa come il simbolo dell’asocialità e della manipolazione degli esseri umani, anche se sappiamo che non è mai lo strumento ad essere buono o cattivo ma il modo in cui lo usiamo. In più ci dimentichiamo, specie quando lavoriamo con le nuove generazioni, che questa separazione tra reale e virtuale non è così netta come crediamo: la virtualità è molto più reale di quanto ci diciamo. Lo abbiamo sperimentato tutti in questo periodo quanto una videochiamata, una mail, una telefonata o un webinar siano qualcosa di molto concreto, capaci di costruire almeno in parte socialità.
2) Dal tempo delle “o” al tempo delle “e”
Ci risulta automatico immaginare una realtà con certe caratteristiche oppure con altre, uno scenario di normalità e uno di anormalità. Siamo cioè dentro una visione dicotomica che oscilla tra l’abitudine o la novità, l’uscire o il restare in casa, il reale o il virtuale, i servizi chiusi o aperti.
Se guardiamo con più attenzione possiamo vedere che tutte queste dicotomie non sono poi così nette e che il periodo che stiamo vivendo ci sta stimolando a guardare le cose in un modo diverso. Gli opposti spesso convivono e proprio questa compresenza può risultare particolarmente generativa se riusciamo a guardarla contemporaneamente, in modo strabico.
Considerare ad esempio la possibilità di tenere insieme reale e “virtuale” non come alternative autoescludenti ma come modalità integrabili, in equilibri da ponderare e costruire per alimentarsi reciprocamente. Oppure considerare il vecchio e il nuovo come due aspetti di uno stesso processo di trasformazione più che due alternative entro le quali scegliere da che parte stare.
Ricordarsi quindi di guardare con uno sguardo plurale, che somma, tiene insieme, aiuta a spostarci verso la ricerca di nuove sintesi, a generare qualcosa di inedito e creativo, più che a oscillare tra un estremo e l’altro, tra i poli opposti del discorso: ad esempio tra un apri o chiudi che non risponde né all’attuale portata dei fatti, né a ipotetici scenari futuri che potrebbero vederci protagonisti di nuove crisi e sfide da gestire.
In questa fase in cui in termini più o meno lineari ci sentiamo lanciati verso l’apertura e un rientro a ciò che avevamo, spesso ci dimentichiamo la forte possibilità di essere di fronte ad un percorso fatto invece di stop and go, di passi avanti, indietro e di lato e di un futuro in cui convivere con maggiore consapevolezza con emergenze e cambiamenti improvvisi.
Siamo quindi chiamati a pensare nuove combinazioni, più che a scegliere tra varie opzioni, a immaginare sintesi e terze vie mai percorse, più che soppesare il valore delle cose pre e post coronavirus.
3) Nessuno ha la soluzione, tutti abbiamo ascolto e osservazione
Possiamo provare a uscire dall’idea di essere in grado di governare questa fase, uscire dall’idea di governare la realtà. Spesso ci illudiamo di avere questa capacità onnipotente di controllare, di indirizzare i processi dove vogliamo, di sapere fin da subito quali saranno gli esiti delle nostre azioni e i progetti. Se questo non vale in generale, certamente non vale in una condizione così aperta e incerta come quella attuale.
Qualsiasi cosa immagineremo e faremo, sarà saggio metterla nell’alveo delle sperimentazioni, come test sulla realtà e su noi stessi per raccogliere ulteriori e continue informazioni. Saremo quindi forzati a lavorare per prove ed errori, ad avere tanti dubbi. Saremo portati a sviluppare la capacità di connetterci con la realtà attraverso l’osservazione e l’ascolto: due parole tanto abusate quanto inattuate perché spesso, per metterle in pratica, serve una certa posizione di fronte alla vita, quella posizione deponente che riconosce i suoi limiti e si mette in relazione.
Chi si immagina di avere idee geniali, di predefinire percorsi rischierà di essere presto deluso: il mondo in cui viviamo è in continua trasformazione e pieno di variabili indipendenti dai nostri piani.
Sarà bene quindi immaginare questa postura come il lavoro prioritario da fare, tenerla sempre a mente perché facilmente rischiamo di perderla di vista, usarla per poter affrontare l’inaspettato e l’imprevedibile che altrimenti vivremo facilmente come fallimenti. Questo significa anche mettersi in una prospettiva temporale che non può essere quella del pronto soccorso, dell’agire tutto e subito, del pretendere risposte immediate perché queste non ci saranno oppure potrebbero rivelarsi un inganno collettivo.
4) Oltre la nostalgia di quello che era
Sarà molto utile provare a sospendere, almeno per un po’, i presupporti sui quali si basavano i nostri servizi e le nostre azioni. Il rischio fortissimo che corriamo è di voler riportare modelli vecchi a una situazione completamente diversa nella quale non solo sono cambiate tante variabili, ma soprattutto siamo cambiati noi. È innegabile che questo periodo così potente e perturbante da tanti punti di vista abbia lavorato dentro di noi in modo profondo, aprendoci a riflessioni ed esperienze che hanno modificato i nostri sguardi, le nostre priorità, le nostre competenze. Tutto questo non possiamo eliminarlo e fingere che non sia avvenuto pensando a quando il vaccino X o la cura Y metteranno la parola fine a una parentesi dell’esistenza. Pensavamo così anche ai tempi della crisi dei mutui subprime, aspettavamo la fine di una crisi che in realtà segnava già dei passaggi epocali nel modo di vivere, lavorare, produrre.
Quello che avevamo prima non è da buttare, ma non possiamo nemmeno crearne una brutta copia che per forza di cose risulta insostenibile o inefficace. Lasciare questa nostalgia per il passato è una elaborazione dolorosa, un vero e proprio lutto che, in quanto tale, ci impegnerà emotivamente a mantenere una postura aperta, dubbiosa e creativa, a rimettere in gioco noi stessi e le certezze alle quali facevamo riferimento. Una biblioteca, una scuola, un centro di aggregazione possono esserlo anche in un’altra formula? Con altri orari, altre azioni, altri strumenti, altri partner, altre competenze? Quanto il territorio può essere ricompreso in questi servizi?
Questo lavoro di superamento dei riferimenti passati va di pari passo con l’analisi di ciò che mancava in quella condizione precedente: quante cose non funzionavano prima? quante cose vorremmo cambiare perché ci stavano strette o trovavamo inutili o disumane?
Questo è il momento per provare a tenere tutte questi aspetti dentro al nuovo che immagineremo e testeremo, permettendoci di contemplare delle condizioni di vita e di lavoro migliori. Il rischio altrimenti è esattamente il contrario, ovvero quello di chiuderci dentro una difesa di modelli che non ci soddisfacevano prima e non potranno certo farlo con l’aggiunta di mascherine e disinfettanti.
5) Predisporre gruppi per pensare
Costruire gruppi che pensano, in questa fase più che mai. Servono dei contenitori e dei dispositivi di pensiero ai quali fare ritorno spesso e volentieri per confrontarsi, sostenersi, mescolare i dati emergenti a tanti livelli. Non possiamo pensare che qualcuno sappia dove andare, non è realistico. La grande sfida di costruire visioni per il futuro è per forza un lavoro collettivo e che parte dal basso, dai dati e dai racconti della realtà, quei racconti che nascono dall’averla annusata, sondata, stanata. Su questo abbiamo già molto materiale perché in questi mesi abbiamo potuto avere a disposizione tanti dati se solo abbiamo voluto raccoglierli, guardarli, analizzarli, dargli senso.
È urgente quindi predisporre nelle nostre organizzazioni questi dispositivi di pensiero e renderli il più possibile multipli, capaci di raccontarsi, di collegare elementi, fare tentativi per ottenere carotaggi di realtà. Predisporre quei dispositivi per permettere a noi e ai nostri progetti di essere più attivamente pensati, co-costruiti da operatori, amministratori e cittadini, arricchiti di consapevolezza e di connessione con il mondo.
Spesso attendiamo disposizioni, procedure e direttive dall’alto: sappiamo molto bene che gli effetti di tali indicazioni non sono soddisfacenti ed efficaci, o per lo meno non lo erano nemmeno nella ben più prevedibile realtà precedente al COVID19. I gruppi pensanti sono lo strumento per indirizzare e affiancare anche chi per mandato deve poi tradurre questi orientamenti variabili in procedure e vincoli burocratici.
Servono quindi nuovi strumenti di lavoro, ridare forte dignità ai momenti di pensiero, riorganizzare prassi e criteri con i quali risolvere problemi e prendere decisioni.
Andava fatto prima certamente, ma non è mai troppo tardi per cominciare a ridare valore alla costruzione di pensiero che altro non è se non predisporre condizioni di socialità, costruzione culturale e partecipazione, partendo da chi i servizi li fa per permettere ai cittadini che li usano di fare altrettanto.