Quando formarsi è una questione di metodo
Date le piste di riflessione degli articoli precendenti (Un normale bisogno di formazione e i 5 spostamenti proposti) ci siamo chiesti quali possono essere dei percorsi formativi adeguati per rispondere a tutte queste sollecitazioni, per accogliere in modo coerente, sostenibile e efficace le richieste che da più parti arrivano quando parliamo di biblioteche. Lo facciamo mettendo a fuoco 3 punti che richiamano il metodo, ovvero il come fare, con il quale impostare nuovi percorsi.
Gruppi, non aule
Certamente abbandonare la dimensione tradizione dell’apprendimento, quella basata su lezioni frontali e sulla netta divisione tra docente e discente. Infiniti sono i riferimenti teorici che indicano questa direzione per ogni contesto formativo, ma altrettanto infiniti sono gli esempi di quanto realizzare tali indicazioni sia difficile e quindi traboccano gli scivolamenti verso la tradizione. Occorre forse rendersi conto di quanto in questa resistenza si giochino aspetti emotivi molto potenti che hanno a che fare con il bisogno di rassicurarsi, di uscire dall’ansia, di rimanere in posizioni più comode e note, di esporsi poco e di evitare la fatica dell’apprendimento e dell’elaborazione.
Certo è più facile disporre cento persone in un’aula per ascoltare qualcuno che parla per un’ora, è più economico, logisticamente più semplice ed immediato, rispetto ad avere ad esempio gruppi di lavoro più piccoli, orchestrare facilitazioni dentro le quali accogliere ciò che viene e saperlo raccogliere e trasformare. C’è in ballo una questione di competenze di conduzione, di funzionamento non tanto di power point ma di gruppi di persone. C’è in ballo il saper accogliere l’errore, l’imprevisto, gli esiti incerti. Significa esporsi molto di più, acuire un diverso grado di sensibilità verso l’essere umano più che verso i contenuti.
Lavorare con i gruppi vuol dire entrare nel vivo del problema, perché è in ciò che portano le persone che si annidano anche i germi della possibile trasformazione, non tanto in una lucida e seppur illuminante dissertazione. Inoltre è molto più coerente in una logica di apprendimento a cascata perché ci si allena in un contesto che molto di più assomiglia e rispecchia ciò che i cittadini sottopongono agli operatori tutti i giorni ovvero la complessità degli aspetti relazionali e l’intricato groviglio delle rappresentazioni individuali.
Multi, non monoprofessionale
Formarsi deve essere un gioco alla scoperta dei propri presupposti teorici, degli sguardi con i quali si osserva il mondo, dei diversi punti di partenza con i quali si approccia la realtà. Per questo servono contesti ristretti, con gruppi contenuti per permettere la nascita di atmosfere di fiducia e partecipazione. E soprattutto servono contesti ibridi, multiprofessionali, dove sia difficilissimo se non impossibile accordarsi su un capro espiatorio (è colpa della politica, è colpa della famiglie, è colpa dei servizi sociali…) perché di ogni soggetto è possibile sentire la voce e le rappresentazioni dei problemi.
Si aprono scenari impensati, dietro le quinte che permettono di ricollocarsi rispetto ad omologhi professionisti incontrati nella quotidianità. Ci si decentra dai propri punti fermi che fanno vedere le cose più o meno sempre dalla stessa inquadratura, con le stesse lenti, con gli stessi occhialacci di legno che tante cose vedono e altrettante tralasciano. Si aprono così spazi creativi e divergenti, quelli di cui abbiamo massimamente bisogno per affrontare situazioni complesse e inedite.
Per questo i gruppi formativi dovrebbero considerare la multi-appartenenza, la multi-professionalità, la multi-territorialità come un elemento fondamentale del lavoro perché è nella pluralità, nella differenza, nel conflitto di visioni che possiamo essere realmente generativi e non continuare ad avvitarci lungo gli stessi e ormai saturi percorsi.
Esperienze, non (solo) teorie
Se si vuole poi che la realtà venga considerata occorre che questa venga espressa attraverso strumenti di lavoro: l’analisi di dati, l’analisi di casi, il racconto di esperienze, l’osservazione diretta.
Partire cioè da elementi che abbiano in sé grande concretezza, che aprano porte sulle azioni ma anche sul modo con cui si pensa e si agisce. Da lì partono i processi di apprendimento, dal fare ricerca e riflessione su quello che si fa con tutta la fatica che ciò comporta. Vivendo i luoghi, attraversando i processi che in questi luoghi si verificano.
Perché oggi è così difficile raccontare quello che si fa?
Perché sembra impossibile rielaborare in forma scritta un’esperienza?
Creare occasioni esperienziali, vere?
Eppure non mancano le occasioni per farlo: convegni, relazioni, supervisioni, equipe, rendicontazioni, tirocini, stage sono i momenti rituali che dovrebbero permetterci questa opera di riappropriazione del nostro lavoro, del suo senso più profondo.
E’ innegabile una forte difficoltà da parte degli operatori sociali oggi nello stare in questa dimensione di autoriflessione accompagnata all’esperienza, come se costasse una fatica inaudita trovare le parole, rimettere testa e cuore sulle cose per rilanciare prospettive e scoprire la realtà per quella che è, non per come vorremmo che fosse.
Forse tutta questa mancanza di tempo di cui ci si lamenta e che impedisce di pensare è solo un modo per proteggerci dal fare i conti con le nostre idealizzazioni, con le nostre paure di non essere all’altezza, di essere giudicati, di mettersi in contatto con l’incertezza e l’imprevedibilità della vita.
ATTREZZARSI AD ESSERE UMANI
Spesso nei nostri laboratori emerge l’esigenza di aprirsi ad un nuovo modo di concepire le biblioteche interagendo con la sua versione più tradizionale. È come se una modalità di lavoro dovesse distruggere o prevalere sull’altra. Eppure ogni prodotto umano è semplicemente in evoluzione, non si tratta di definire modelli vincenti e perdenti ma possibilità per stare vicini alla realtà. E per farlo servono tutti gli sguardi, tutta la storia, tutti i tentativi che hanno animato quella proposta.
Se è vero che fare biblioteca oggi significa lavorare per la partecipazione dei cittadini a livello culturale, sociale e politico (tre dimensioni inscindibili) dobbiamo attrezzarci per rendere questa missione possibile, affrontabile, sostenibile ricordando che ogni pezzo di questa specie di manifesto è importante e che dietro ad essi c’è molto di noi come operatori.
Perché stiamo parlando di dimensioni molto alte che hanno a che fare con le parti più nobili dell’essere umano: il desiderio di bellezza, di condivisione, di bene comune. Queste cose non si possono solo imparare, bisogna viverle.
Costruire la città in questo senso non è un mestiere semplice, non è un compito che si possa fare da soli, da un pulpito o in una torre di avorio, senza sporcarsi le mani, senza indagare delle dimensioni profonde di noi.
Per questo in così pochi se ne occupano. Ecco perché le nostre città, le nostre comunità soffrono e si disgregano e così poco ci sembra sia possibile fare. È un compito difficilissimo e dobbiamo esserne molto consapevoli. Certamente non possono essere solo le biblioteche gli attori di questa sfida ma uno degli attori diremmo proprio sì.
Il percorso dei Laboratori Bibliosociali cerca di mettere in pratica (e di continuare a far evolvere) le idee esposte in questo articolo, attraverso:
– un paio di seminari annuali in cui si lavora e ragiona in un piccolo gruppo;
– la disponibilità a immaginare, progettare e realizzare convegni aperti sul tema (come già realizzato negli anni passati);
– attività di consulenza (rielaborazioni di gruppo, riorganizzazione dei servizi, formazione) a livello locale.