Rifiutare l’emergenza mentale. Ripensare biblioteche e incubatori di comunità

 In Articoli

Abbiamo provato in queste settimane a rimettere in fila un po’ di ragionamenti che in questo strano e confuso periodo di emergenza, riorganizzazioni, paure e confusione si sono andati perdendo.

Lo sappiamo bene, ed è uno degli aspetti che spesso emergono nella proposta dei Laboratori Bibliosociali: in situazioni di emergenza si pensa poco e male, quando il pensiero invece è uno degli strumenti più preziosi che abbiamo per fare quel delicato, silenzioso lavoro di costruzione culturale ovvero dare senso e significato a quello che succede nella nostra vita.

Quando parliamo di emergenza non possiamo dimenticare come fossero le nostre vite prima del coronavirus ovvero una serie ininterrotta di emergenze di ogni tipo che rendeva difficile, se non impossibile, incontrarsi per ragionare, confrontarsi sul proprio lavoro, sulle azioni messe in campo ogni giorno, sulle difficoltà e le risorse presenti, su una visione di futuro. Vivevamo schiacciati dentro un eterno presente che rincorreva le emergenze di tutti i giorni, che impediva di pensarsi in una logica più profonda e più ampia, nel livello degli approfondimenti e dello sguardo in prospettiva.

Ben prima dell’era COVID quindi, l’emergenza è divenuta uno stile di vita, di lavoro, per certi versi quasi un modo di pensare comune a tanti, trasversale agli ambiti. Un modo di pensare che ci permetteva di poter agire in una logica di stimolo-risposta, come teleguidati dagli eventi, con la sensazione di essere eterodiretti e passivi rispetto a forze ben più grandi di noi. Si diceva che non c’erano soldi, non c’era tempo, non c’erano la disponibilità o il mandato politico per potersi dedicare al pensiero, alla scrittura, alla manutenzione e alla riorganizzazione delle équipe, alla relazione con la comunità.

Beh, probabilmente non era vero allora e non lo è nemmeno adesso.

Soprattutto in questa fase in cui all’orizzonte già si vedono arrivare le forbici dei tagli alla cultura, al personale, agli appalti, si scorgono già disagi indicibili in tutti i campi del vivere umano.

L’idea, un po’ provocatoria ma speriamo generativa, è che abbiamo interiorizzato uno stato di emergenza nelle nostre menti che ci paralizza, ci rende poco coraggiosi e ci fa perdere di vista le priorità del nostra operare, ci fa perdere soprattutto il senso di quello che produciamo.

La situazione che oggi le biblioteche stanno vivendo, e insieme ad esse tanti altri luoghi che cercano di offrire un complesso servizio di incubazione socioculturale, ha radici profonde. Radici che non sono certo nascoste e sulle quali si sprecano i dibattiti e i convegni pubblici, le riflessioni e gli articoli di tanti che da anni segnalano pericoli senza però riuscire a raccogliere risultati, ad attivare reali processi di cambiamento.

Proviamo a vedere alcuni di questi punti insieme, quelli che crediamo siano i più evidenti ma anche quelli sui quali fin da oggi si potrebbe ricominciare o continuare a investire con maggiore forza a consapevolezza.

1 –> Rendere visibile quello che facciamo

Mettiamo in campo mille progetti, lavoriamo in modo eccezionale con tante persone, gestiamo situazioni complesse, facciamo un preziosissimo lavoro di prevenzione e di presidio dei territori e nessuno lo sa.

Non documentiamo questa ricchezza, la teniamo rinchiusa quando va bene dentro le mura del servizio, più spesso dentro la nostra testa. Consideriamo un tempo non importante quello dedicato a tenere traccia di tanta ricchezza, forse perché siamo i primi a non percepirne la forza, non riusciamo a vedere le porte che potrebbe aprire questo investimento.

E quando lo facciamo costruiamo delle forme di rendicontazione fredde, senza anima, con linguaggi burocratici che sappiamo essere illeggibili e incomprensibili per chiunque.

Non scriviamo, non raccontiamo, non ci sforziamo di rimettere in fila le nostre giornate dense, i nostri progetti complicati. Viviamo in immersione, sott’acqua, mentre avremmo un gran bisogno di respirare, quel respiro che viene proprio dal rimettere in fila quello che abbiamo creato, costruito, messo a disposizione dei cittadini.

Accanto a questa difficoltà nel documentare la nostra attività quotidiana, emerge lo scarso presidio del lavoro di restituzione ai nostri portatori di interesse, magari convocandoli in contesti caldi, chiari, interattivi.

Pensiamo che sia sufficiente il nostro fare per essere visti, considerati, apprezzati. Lo sappiamo bene che non è così.

Semplicemente senza questo lavoro non esistiamo, per quanto bravi e fantastici siamo nel quotidiano. E quando non esisti rischi di essere percepito e quindi diventare per molti un soprammobile. E qualcuno, un bel giorno, potrebbe anche pensare che questo soprammobile serva solo a prendere polvere.

2 –>Costruire consenso nei territori

Costruire reti non è una frase fatta, ha un senso molto profondo. Tutti siamo d’accordo che da soli non possiamo farcela, che qualsiasi servizio che guarda solo a sé stesso è destinato all’insignificanza e all’inefficacia. Ma sulle reti ragioniamo in modo magico aspettandoci che queste reti si creino da sé o che si mantengano autonomamente senza che ciò richieda invece un investimento quotidiano.

Uscire sui territori, essere “animali di quartiere”, dialogare, incontrare, capire, co-progettare: questo è il lavoro necessario per tessere quelle connessioni che sono la base, la sostanza, l’humus di ogni servizio, di ogni esperienza che ha l’ambizione di creare e ricreare continuamente comunità. Comunità: una parola che significa poi semplicemente rendere bello, sostenibile, accogliente, inclusivo e resiliente un posto, un luogo, un territorio.

E poi cosa dire delle persone, i nostri utenti, quelli che fatichiamo a chiamare cittadini, quelli che a volte sentiamo un po’ minacciosi, spesso ingombranti, con tutte quelle richieste balzane, con tutti i problemi che ci portano? Eppure lì sta la ricchezza, lì sta la forza e il motore di qualsiasi progetto.

Chiaramente stare vicino ai cittadini è difficile, è fatica, ti porta a cambiare continuamente il modo di vedere le cose, a spostarsi rispetto a ciò che ci sembrava dato per assodato, a mettere in discussione le nostre identità lavorative e professionali. Ma senza i cittadini continuiamo a non esistere, continuiamo ad avere il problema del consenso, fatichiamo ad accreditarci coi decisori politici che vedono nel nostro servizio un costo e non un investimento, una ciliegina invece che la torta.

3 –>Dare valore alla relazione e al pensiero

Queste trasformazioni, che crediamo siano alla portata di tutti, magari con un percorso nel tempo, mettendo certo in conto cambiamenti, sofferenze, fatiche, rimettono al centro due aspetti che spesso tornano negli appuntamenti dei Laboratori Bibliosociali: la relazione e il pensiero, che altro non sono se non la socialità e la cultura.

Ma quanto siamo lontani dal dare valore a questi due punti? Quanto ci ritiriamo dalle relazioni anteponendo, spesso senza neppure accorgercene, le procedure, i mandati, le identità?

La relazione ha a che fare con l’umanità, con le dimensioni della fiducia, della vicinanza affettiva, dell’ascolto, del dubbio, del non poter controllare tutto, della scoperta. Quanto siamo lontani da tutto questo?

E il pensiero dov’è finito? Dove lo abbiamo relegato nelle nostre settimane piene di corse? Nelle nostre riunioni di équipe che non facciamo più o non abbiamo mai fatto, nel nostro correre senza chiederci dov’è finito il traguardo o a quale gara stiamo partecipando?

Dobbiamo dircelo con schiettezza: il pensiero è una facoltà che usiamo sempre di meno perché è un lusso, un aspetto che noi per primi pensiamo di non meritarci. Ma è un lusso nel senso che va costruito nel tempo, va curato come un rito di benessere e salute, va presidiano come un bene prezioso, per certi versi essenziale.

Qualsiasi sia l’idea che abbiamo per il futuro, senza questi punti sarà difficile andare lontano. Semplicemente avremo qualche altra emergenza che scalzerà quelle precedenti e dovremo combattere con armi spuntate delle battaglie già perse in partenza per un riconoscimento che non arriverà. E in questo modo sarà possibile di nuovo chiudere tutto per questa o quella nuova emergenza con poche voci che si leveranno contrarie. Oppure facendo fatica noi stessi a capire se davvero quello che produciamo ogni giorno è poi così importante come crediamo.

Recommended Posts

Leave a Comment

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.

Contattaci

Scrivici un messaggio. Ti risponderemo il prima possibile. Grazie

Not readable? Change text. captcha txt

Start typing and press Enter to search