SCOPERTE ATTRAVERSO IL COVID19. Cosa hanno imparato i servizi socio-culturali di fronte all’emergenza
Mentre ci confrontiamo con la fase di ripartenza in ogni settore delle attività nazionali, la relativa distanza dal momento di emergenza acuta ci permette di avviare una riflessione su quanto abbiamo imparato in questo frangente come operatori di servizi socio-culturali. Dentro questo definizione includiamo biblioteche pubbliche che si ispirano alla prospettiva “sociale” e attività che lavorano a vario titolo per le rigenerazione comunitaria.
Lo facciamo sulla base dei contributi ricevuti da operatori di varie provenienze professionali e geografiche che in queste settimane ci hanno raccontato il processo attraversato da febbraio 2020 ad oggi. Grazie a questi dati, a queste vere e proprie narrazioni sul campo, proviamo a dare forma ad una serie di apprendimentiche ci possano permettere di guardare al futuro con maggiore consapevolezza, ma soprattutto di guardare al passato in modo critico più che nostalgico.
Pensiamo infatti che, se esiste un punto di convergenza sull’esperienza che stiamo tutti vivendo, questo è proprio la grande occasione di guardare ai nostri servizi e al nostro modo di procedere con una rinnovata capacità di analisi e il desiderio di trovare nuove prospettive di senso.
1) La capacità di apprendere era arrugginita
Nello sconcerto e nella confusione di questi mesi, tra chiusure, iniziali riaperture parziali, chiusure definitive e nuove aperture graduali l’azione automatica alla quale tanti si sono dedicati è stata ritrovarsi insieme tra colleghi.
Nell’ansia e nell’incertezza di settimane convulse, di decreti da decifrare e interpretare, di indicazioni dall’alto incerte e sospese, è divenuto essenziale attivare una vicinanza, una “colleganza” tra le persone che condividevano lo stesso servizio. È stato un fare squadra, cercare sostegno reciproco e costruire pensiero su qualcosa che era difficile da pensare. È emerso un forte bisogno di parlarsi, di dirsi emozioni e dubbi, aprire domande nuove e riaprire domande vecchie da tempo sopite. In questa operazione di creazione di una dimensione di gruppo che in molti servizi non c’era, oppure risultava residuale, ci si è presto resi conto di quanto questa nuova sfida richiedesse un cambio di metodologia, di rimettere in gioco la capacità di stare nell’incertezza e di apprendere qualcosa di inedito. Un apprendimento velocetra l’altro, che non permette grandi dubbi per aderirvi e non rispetta completamente i tempi personali di metabolizzazione. Un apprendimento che ha trovato impreparati molti operatori e organizzazioni che non presidiavano questi dispositivi di manutenzione oppure ne consideravano solo gli aspetti operativi, la dimensione del fare e della distribuzione dei compiti più che della riflessione che permette di imparare qualcosa di nuovo.
Spesso la capacità di apprendere si connette strettamente con la capacità di incontrarsi, di convocarsi intorno ad un tavolo. Abbiamo visto come questa che sembra un’operazione banale non lo sia affatto quando si vive in emergenza e, se non c’è un’abitudine costruita prima, tali convocazioni risultano facilmente frustrate. Questo lo si è visto a tanti livelli, nello stesso ufficio, nello stesso Comune, nello stesso agglomerato di reti di servizi similari.
2) Tanti cambiamenti erano nell’aria
In questa forzata condizione di apprendimento tanti si sono resi conto non solo che il cambiamento era possibile ma che questa stessa trasformazione andava a toccare proprio quegli aspetti sui quali da tempo si sviava, si diceva fossero impossibili, inattuabili per mille ragioni, senza riuscire ad entrare veramente nel merito di tali motivazioni.
L’emergenza Coronavirus ha avuto l’effetto di portare a galla tutte queste questioni, di renderle visibili in modo marcato, di far cadere una dopo l’altra quelle barriere, spesso ideologiche più che sostanziali, che non permettevano di accedere a forme di cambiamento logiche e ampiamente motivate.
L’esempio del lavoro da casa e dell’uso di strumenti tecnologici e cooperativi sono i più lampanti elementi di tale processo che negli anni avevano resistito ad ogni forma di proposta in questo senso, probabilmente più per abitudine e sensazione di sovraccarico che non per una ponderata valutazione costi-benefici.
Da tempo ci dicevamo che i nostri servizi avevano bisogno di rinnovamento, di darsi nuovi slanci, di uscire da logiche che rispondevano più a pratiche burocratiche consolidate che a pratiche di senso. Oggi vediamo con chiarezza che queste trasformazioni sono possibiliperché siamo stati capaci di reinventarci, di riadattarsi in modi che non credevamo possibili. Ma sappiamo anche che quando una trasformazione è imposta non funziona così bene come quando la maturiamo autonomamente perché ci crediamo. Il forte rischio che corriamo oggi è di aver visto quante cose possiamo trasformare ma di tornare presto ad appiattirci sulle direttive, sulla semplificazione delle azioni che arrivano dall’alto, tendenza ampiamente in atto in questo periodo.
3) Chi aveva investito sulla comunità ne ha tratto vantaggio
Tante volte ci siamo confrontati con l’idea che oggi nessun servizio può svolgere la sua attività esclusivamente all’interno del perimetro delle sue mura. Soprattutto chi opera con la comunità, chi ha servizi di prossimità non può permettersi di attendere o di svolgere semplicemente l’erogazione di servizi. L’uscire fuori di sé, come raccomanda Maria Stella Rasetti, e come ci insegna da oltre vent’anni chi opera in ambito di lavoro di comunità, è un elemento essenziale per una molteplicità di ragioni che già altre volte abbiamo sottolineato. Uscire da sé per ascoltare, per farsi conoscere, per creare connessioni, per rendere visibile il proprio lavoro, per allargare il campo di gioco, per costruire consenso: tutte quella azioni che permettono ad un servizio di essere forte e robusto di fronte ad una crisi, di non essere relegati nella panchina del non essenziale.
I servizi che già avevano, per mandato o per inclinazione personale degli operatori, questo tipo di lavoro alle spalle hanno potuto constatare una maggiore facilità nell’attivare nuove progettazioni, riconvertire la propria attività, dare un contributo alla collettività anche da un backoffice risultato molto vicino alle persone; hanno potuto ibridare le proprie azioni mettendole in connessione con partner territoriali che avevano maggiore libertà di manovra o che sono divenuti porta per certi mondi o cerniera per altri.
Chi invece non ha potuto contare su questa pregressa esperienza di uscita dalle sue mura ha constatato velocemente come, una volta chiusa la porta di accesso del servizio, si siano rapidamente spente le comunicazioni con chiunque e che altrettanto velocemente la rappresentazione del proprio servizio si sia rimpicciolita e semplificata all’osso: sono così scomparse una serie di dimensioni potenziali a vantaggio di una narrazione che riporta tutto alla logica dell’erogazione di servizi individuali, con buona pace delle dimensioni della partecipazione e della piena cittadinanza.
Chi aveva alle spalle anni di passeggiate e chiacchierate nei quartieri, progettazioni col territorio, chilometri di strada e caffè condivisi, ha potuto cogliere la forza generativa di questa fase, scoprire quanti volontari sono pronti a dare una mano, quante risorse sono mature e solo da prendere e direzionare.
4) La fragilità dei servizi e delle comunità
Un po’ lo sapevamo che molti servizi erano estremamente precari, che traballavano nella dimensione del consenso pubblico e politico, che era difficile comprenderne il valore dentro una realtà piena di emergenze e tagli economici.
Ci si è accorti in modo improvviso, ma di certo non imprevisto, che bastava una piccola spallata a creare uno scenario incerto, uno scenario nel quale si poteva benissimo fare a meno dei nostri servizi, si poteva tagliare a piacere sulla base di quanto restava nei bilanci. Questo ci ha interrogato parecchio su come avevamo predisposto le nostre modalità di co-progettazione con gli amministratori, le nostre pratiche di valutazione e restituzione. Semplicemente viaggiavamo a vista, senza orizzonti verso cui procedere, senza un piano condiviso di lavoro, al massimo contando sulla delega di fare questo o quello, con attività pensate più come aggiunte, lussi, eccedenze che non come aspetti essenziali del sistema complessivo dei servizi.
La fragilità dei servizi è emersa anche con velocità diverse: si è visto come chi opera nel pubblico e nel privato lavora spesso negli stessi servizi ma con con livelli di tutela molto diversi.
Di fronte a questa fragilità dei servizi abbiamo visto con chiarezza la fragilità delle comunità, andate in crisi dal punto di vista non solo economico ma anche relazionale e psicologico. Abbiamo cioè toccato con mano quanto lavoro risulti assolutamente ancora da fare, di quanti campi di azione si possano sviluppare: spesso i servizi nei quali lavoriamo avrebbero tutto per poterlo fare. Su questo ci è mancata forse la forza di muoverci per tempo, di vedere che lì c’era una possibile pista che avrebbe reso più forti servizi e comunità. Ora non tutto è perduto, queste fragilità avranno bisogno di tanta cura che occorre organizzare e riorganizzare. Per farlo occorre avviare delle battaglie, combattere, parlare, argomentare, difendere, proporre: richiede cioè un lavoro vero e proprio che va fatto continuamente, non solo quando i nostri servizi sono a rischio, semplicemente perché in quel momento è troppo tardi.
5) Abbiamo capito se ci piace lavorare con le persone
Da un certo punto di vista questa situazione ci ha permesso di capire in modo netto quali sono le nostre motivazioni. Ci ha fatto vedere con chiarezza se il lavoro di prossimità, di vicinanza emotiva e sociale, a graduabile distanza fisica, è la nostra missione o solo un impiego a ore. Come tutte le professioni che hanno a che fare con le persone i nostri servizi hanno una grande bisogno di cuore, di desiderio di stare con la comunità, di esserne parte. Se abbiamo vissuto la chiusura dei servizi come un regalo, come un modo di sentirci meglio con noi stessi, lontano dallo stress del contatto con le persone forse dobbiamo domandarci perché facciamo questo lavoro, quale rappresentazione ne conserviamo, come stiamo in questa relazione, quanta energia abbiamo e siamo ancora in grado di condividere.
Operare nei servizi socio-culturali ha a che fare con l’amore per un’idea di mondo migliore che sostiene gli sforzi della quotidianità, del prendersi cura delle relazioni, dei problemi, delle contraddizioni delle comunità. Non è un posto comodo, neppure un posto dove poter solo erogare prestazioni senza esserne in parte coinvolti, attivati, accesi.