Uno scenario ipotetico? Al cuore delle “biblioteche sociali” il cuore dei bibliotecari
E se da domani tutte le biblioteche fossero tenute ad adottare un’impostazione che va ad enfatizzare la propria funzione sociale?
Se da domani dovessero per “decreto” accogliere una trasformazione sulla quale da tempo si discute?
Una trasformazione che ha aperto un grande dibattito polarizzato tra chi la considera un passaggio inevitabile e chi invece pensa che si tratti di una direzione errata, da evitare per non perdere l’identità del servizio bibliotecario.
Che cosa accadrebbe in questo scenario?
Uno scenario che obbliga a rivedere il servizio bibliotecario verso un luogo dalle caratteristiche più simili ad un incubatore di comunità che non ad un presidio culturale come siamo più abituati a concepire; un luogo quindi con un mandato molto più ampio e complesso, con i desideri del cittadino al centro, una forte flessibilità nei progetti e negli operatori, con una forte enfasi sulle competenze relazionali e di gestione di reti con altri enti e servizi, con la partecipazione come parola chiave di tutti i processi attivati.
Proviamo a fare qualche ipotesi.
Certamente ci troveremmo di fronte ad una trasformazione non semplice, piena di criticità.
Gli organici ridotti si troverebbero sovraccaricati di molti e rinnovati compiti, incerti e spaesati rispetto a nuove competenze da acquisire o a equipe multi-professionali da costruire e guidare.
Le procedure amministrative (determine, MEPA, incarichi, gare e appalti…) si moltiplicherebbero, così come i tavoli di lavoro e gli interlocutori, così come i progetti in costante movimento, trasformazione e bisogno di manutenzione.
Nuove tipologie di utenti varcherebbero la soglia della biblioteche mentre quelli abituali protesterebbero di fronti a tanti utenti considerati impropri generando fermento e conflitti, entrambi aspetti caldi da gestire.
Gli amministratori sarebbero costantemente sollecitati a rintracciare risorse aggiuntive per sviluppare i cangianti bisogni e desideri dei cittadini, per rendere gli spazi fisici funzionali a queste rinnovate esigenze.
Alcune biblioteche si sentirebbero schiacciate da questo mare di informazioni, di mansioni e problemi, rimpiangendo il tempo in cui potevano concentrarsi maggiormente sul prestito e la catalogazione o con utenti meno complessi e più prevedibili nei comportamenti e nelle richieste.
Per non parlare della fatica a digerire una nuova identità lavorativa e professionale, sempre più ibrida, mescolata con altre competenze e professionisti, alla ricerca costante di un difficile punto di equilibrio, a volte molto lontana dalla definizione originaria di bibliotecario e biblioteca.
Uno scenario disastroso.
Non stupisce quindi il fatto che nei dibattiti sulla funzione sociale delle biblioteche (o sulle cosiddette biblioteche sociali) si incontri un buon consenso, ma allo stesso tempo forti dubbi, perplessità, blocchi, resistenze. Non stupisce che spesso emergano vissuti di paura, di stanchezza, il desiderio di definire meglio il ruolo professionale e il mandato depurandolo di tutte quegli aspetti che non gli appartengono. Non stupisce neppure l’ambivalenza: volersi lanciare verso questa direzione e al contempo criticarla e anche osteggiarla preferendo addirittura una possibile eutanasia alla trasformazione.
Fin qui tutto normale e comprensibile ma ci domandiamo come mai, di fronte a questo scenario, alcuni bibliotecari, senza per altro esserne obbligati per “decreto”, stiano provando ad abbracciare questa prospettiva di lavoro.
Masochismo? Incoscienza? Incapacità di prevedere le conseguenze delle proprie scelte?
Perché è innegabile che chi si trova in questo esperimento avverta tutte le difficoltà che abbiamo descritto nel nostro scenario ipotetico e che abbiamo potuto costruire proprio sulla base dei loro racconti.
Anche qui proviamo a fare qualche ipotesi sul perché di tale scelta.
Certamente ci sono dei dati di realtà che spingono fortemente verso questa trasformazione e sono al centro del dibattito del mondo biblioteconomico da molti anni: la graduale uscita delle biblioteche dalle agende politiche a causa di una scarsa attenzione alla cultura ma anche a causa della riduzione numerica dell’utenza e dei prestiti che rendono spesso questi luoghi appannaggio di élite, di una piccola fetta della popolazione, probabilmente di quella fetta che meno avrebbe bisogno di uno spazio comune e gratuito potendo disporre già di importanti risorse economiche, relazionali e personali.
Vi sono poi i forti e accelerati cambiamenti legati alla tecnologia che mettono in discussione la centralità del libro come mezzo di diffusione delle informazioni a vantaggio di altri strumenti e modalità.
Altro aspetto è l’aumento delle richieste di utilizzo delle biblioteche da parte di nuove tipologie di utenti: pensiamo ai senza fissa dimora, agli stranieri (in particolare i rifugiati ma non solo); ai giovani adolescenti alla ricerca di luoghi di aggregazione, di ricerca e sperimentazione lavorativa; ai cittadini che cercano sponde per realizzare progetti; agli anziani che desiderano restare attivi e vincere solitudine e isolamento.
Le amministrazioni dal canto loro sono sotto pressione per una mole crescente di richieste per tante categorie di cittadini per le quali i servizi sociali e sanitari non trovano risposte o per le quali sono ingolfati, spesso inermi e sovraccaricati. Dall’altra parte si sente forte l’esigenza di creare occasioni per facilitare la partecipazione dei cittadini sempre più lontani dalle proprie comunità e dalle istituzioni, di coinvolgerli in percorsi partecipativi, in momenti di confronto e di stimolo a mettere a disposizione energie per il bene comune.
A fronte di tali esigenze le risorse economiche presenti non abbondano e diventa complicato predisporre luoghi e personale per guidare dei percorsi che da soli, se non appositamente seguiti e monitorati, hanno ottime probabilità di naufragare. Soprattutto diventa difficile mettere a disposizione luoghi, specie ex novo, che necessitano di continua trasformazione e di tanto tempo per essere riconosciuti come accessibili e utilizzabili per scopi diversi.
Certamente questi bibliotecari incoscienti sono stati contagiati e trasformati dalle mansioni ricevute nel tempo, collegate con l’ambito educativo e sociale oltre che culturale, essendo spesso dirigenti o operatori che gestiscono ampi settori specie nei piccoli comuni. Forse in questa quotidiana sperimentazione si trasforma qualcosa negli operatori che conoscono nuove realtà, nuove utenze, dapprima in modo un po’ obbligato, poi man mano in modo più stabile e anche piacevole andando a modificare gradualmente anche la visione del proprio ruolo professionale e dell’identità del servizio in cui operano.
Insomma un gioco complesso che ha alla base le contingenze della realtà, ovvero i cambiamenti che tutti abbiamo sotto gli occhi. Un gioco complesso che ha a che fare anche con la contingenza di trovarsi immersi in una certa situazione all’interno della propria organizzazione lavorativa.
Ma perché accettare questa trasformazione? Si potrebbe anche dire, e si dice, che la realtà è questa ma non è la biblioteca che deve farsene carico, non è lei che deve fare uno sforzo per colmare lacune che appartengono ad altri.
Forse c’è dell’altro che ha a che fare con un desiderio del bibliotecario, quello di vedere finalmente la cultura volare, di avere la possibilità di mettere al centro il proprio lavoro e il proprio contributo originale, specifico, pieno di potenzialità. Come un’occasione da non perdere per essere protagonisti di una piccola svolta del nostro paese, nel miglioramento della vita delle persone e delle comunità. Come il completamento di un sogno che forse ha guidato tutto il percorso di studio e di lavoro di questi professionisti: finalmente poter dare forma all’essere custodi delle migliori storie dell’essere umano.
Non è una questione di mettersi al centro dell’attenzione, quanto piuttosto la possibilità di vedere ciò che si ama messo in condivisione, trasformato da giardino segreto in giardino comune. Poter mettere a disposizione delle persone e delle comunità bellezza, emozioni, relazioni, magari non nel modo che ci eravamo immaginati, ma la cosa fondamentale è poterlo fare, poterlo realizzare concretamente. Oggi c’è una grande occasione per farlo.
Ecco, può essere che sia questo il movente di alcuni bibliotecari ad accogliere questa trasformazione, a dare un senso a ciò che altrimenti risulta solo un suicidio professionale: accogliere di mettersi in gioco per poter realizzare la propria missione più profonda di rendere più bello e vivibile il nostro mondo o i piccoli angoli di mondo in cui viviamo e lavoriamo. Perché è innegabile che chi ama le biblioteche ama la bellezza e l’essere umano.
Per poter guardare a tutto ciò servono tante cose: si sente l’esigenza di percorsi nei quali dare spazio alla comprensione dello scenario in cui ci troviamo, perché assumere i dati di realtà è necessario così come guardare alla complessità di tale realtà.
Ma è altrettanto importante dare spazio alla parte emotiva, alle mille paure che nascono quando si è di fronte a realtà che spaventano, difficili, complicate; dare spazio e parola alla parte emotiva che ci fa sentire inadeguati, stanchi e soli di fronte alle enormi sfide del nostro tempo; dare slancio attraverso l’azione e il fare concreto al nostro pensare e al nostro sentire.
Ma anche dare spazio a quella parte emotiva che ama profondamente questi luoghi e questa professione e che è il vero motore di tutto il processo.
Per farlo è fondamentale avere compagni di viaggio, per condividere un’avventura lunga e difficile, per potersi prendere qualche pausa, avere dubbi e a volte riposarsi, ascoltare, ispirarsi. Costruire cioè degli spazi, delle occasioni, dei dispositivi che permettano questo percorso, che accompagnino questo processo di trasformazione esteriore ma, ancor di più, di consapevolezza interiore.
Servono cioè dei luoghi intermedi dove nutrire queste aspirazioni, fare chiarezza, condividere fragilità e intuizioni e poter innescare in modo consapevole e volontario questa forma di transizione verso biblioteche come bene comune di tutti, come motore di comunità, come grande occasione di rinascita socio-politico-culturale.